“Se mentre mangi con gusto non hai allato a tia una pirsona che mangia con pari gusto allora il piaciri del mangiare è come offuscato, diminuito”
(A. Camilleri)
Ed è proprio vero quello che dice il grande scrittore… il “mangiare” è uno dei piaceri della vita e come tutti i piaceri deve essere condiviso. Ovviamente parliamo del mangiar bene e con gusto. Partiamo proprio da questa riflessione per presentare una prelibatezza che rientra oggi tra i prodotti street food ma che per noi siciliani rappresentava e rappresenta tuttora una tipicità della nostra gastronomia e, perché no, un momento da condividere con amici e parenti nei giorni di festa.
Ci riferiamo al famoso, o famosa per i gli amici palermitani, arancino/a che adesso, per non offendere nessun isolano, chiameremo in dialetto “arancinu”.
Sia al maschile che al femminile, nessun siciliano potrebbe resistere alla tentazione di mordere questa delizia di riso dalla panatura dorata e croccante e dal ripieno morbido e gustoso. Ma aldilà dell’acquolina in bocca che sta venendo a tutti, da dove proviene questa “manna”?
Tutti siamo al corrente che la nostra cara Sicilia, per la sua posizione strategica al centro del Mediterraneo, è stata crocevia di dominazioni che hanno lasciato la loro impronta architettonica, linguistica, artistica ed anche gastronomica.
Infatti terra di sole, clima mite e mari pescosi, la nostra Isola fu da subito luogo d’incontro tra prodotti del territorio e prodotti importati dai vari dominatori che si susseguirono.
Dai Greci abbiamo ereditato vari tipi di pane e del vino ma anche alcune abitudini alimentari (come quella del mangiare tre volte al dì), alcuni metodi particolari di salatura della ricotta, per poterla meglio conservare, e di come trattare le olive. Nel ‘827 gli Arabi approdarono in Sicilia portando anche loro il proprio bagaglio di cultura culinaria e di nuovi ingredienti quali il riso, lo zafferano, la canna da zucchero, il gelsomino, gli agrumi, la cannella e tante altre spezie profumate. Nascono così, dall’accoppiamento arabo-siculo, la maggior parte di quelli che oggi sono i prodotti tipici di cui con onore ci vantiamo. Pensiamo alla Cassata siciliana, dolce emblema dell’Isola il cui nome originario è qas’at (scodella); la Cubbaita, tradizionale torrone con mandorle, miele e sesamo; il sorbetto o granita; il Cannolo, il quale bensì abbia subito molte modifiche e rifacimenti nei secoli, sembra abbia origini arabe anch’esso essendo originariamente un dolce dalla forma allungata con ripieno di mandorle e zucchero. Anche l’agrodolce, gusto più caratteristico che non può mancare in alcune pietanze tipiche quali la caponata di melanzane e la zucca è di derivazione araba.
Riso e Zafferano
È così che la cucina siciliana oggi rinomata in tutto il mondo nasce: dal connubio tra competenza, creatività e tradizione isolana e novità di profumi, ingredienti e metodi apportati dai vari popoli che si susseguono. È a questo trionfo di culture che possiamo anche associare l’origine dell’Arancino/a, in particolare a quella araba. Infatti, furono i nostri dominatori musulmani ad introdurre quelli che sono i due ingredienti principali: riso e zafferano, che usavano mangiare con carne e verdure. Quindi il “bis-bis nonno” dell’odierno arancino altro non era che una sorta di timballo di riso senza pomodoro (infatti questi succosi ortaggi dovevano ancora essere importati dall’America Latina per opera degli Spagnoli che, di conseguenza, li introdussero in Sicilia a seguito della loro dominazione nel XVI sec.). Invece, la panatura sembra sia stata introdotta solo successivamente con l’avvento dei Normanni che, costituendo il Regno di Sicilia, fecero conoscere all’Isola un periodo di grande splendore. Fu grazie a Federico II di Svevia, sovrano illuminato, che l’arancino divenne quello che oggi conosciamo per forma e panatura croccante. Infatti, si narra che il sovrano amasse quella pietanza così tanto da volerla sempre a portata di mano anche durante le battute di caccia.
Proprio dalle esigenze di una migliore conservazione e soprattutto praticità nel trasporto la “pallina” di riso assunse la forma attuale e venne panata e fritta nell’olio bollente. Lo stesso metodo, di panatura e frittura, si è tramandato nei secoli come ci dimostra anche Andrea Camilleri nel suo libro Gli Arancini di Montalbano:
“Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio”
(Gli Arancini di Montalbano – A. Camilleri)
Ma insomma, è “masculu” o “fimmina”?
Piccola parentesi sulla diatriba che non troverà mai pace.
Su questo argomento vi è una Sicilia spaccata in due. Palermo vs Catania, ArancinaA vs ArancinO, forma sferica e ripieno al ragù vs forma conica piramidale e ripieno al ragù. Beh, per un palermitano mai e poi mai l’arancina può essere “maschio”. La motivazione è giustificata dalla morfologia del termine che viene fatto derivare dall’arancia e, effettivamente, se pensiamo alla sua forma la possiamo associare al noto e succulento frutto di cui la Sicilia è sempre stata ricca.
Ma tutto ciò sarebbe improponibile per un catanese che mai e poi mai accetterebbe di utilizzare il termine al femminile. Infatti, a Catania ed in tutta la Sicilia orientale si parla di arancino. Ma cerchiamo di capire anche la giustificazione di questa altra corrente di pensiero. L’Accademia della Crusca ci ha dato recentemente delle delucidazioni al riguardo affermando che il termine arancino è la forma dialettale per indicare il frutto dell’arancia. Appunto dal dialetto “aranciu” = arancia, deriva “arancinu”, cioè piccola arancia. Mentre il termine al femminile è il termine più italiano che si riferisce anch’esso all’arancia, frutto tondeggiante che tutti conosciamo.
In conclusione, dire arancina o dire arancino poco importa. Entrambi sono corretti ma soprattutto, a parte il genere, in tutta la Sicilia dall’est all’ovest, da Palermo a Catania, sono squisitissime in tutte le loro varianti: ragù, melanzane, pistacchio, spinaci, burro e chi più ne ha più ne……..frigga!
A proposito di frittura…andiamo a scoprire la ricetta.
Ricetta e preparazione degli Arancini
Livello di difficoltà: medio
Ingredienti per circa una ventina di arancini/e di media grandezza:
- 1 kg riso allungato
- 2,5 l di acqua
- 100 gr. burro
- 2 bustine di zafferano
- Sale q.b.
per il ragù:
- 1 cipolla
- 1 carota
- sedano
- 2 foglie d’alloro
- 250 gr. di carne di maiale tritata e 250 gr. di carne di bovino tritata
- 1/2 bicchiere di vino bianco
- concentrato di pomodoro, 200 gr. piselli
- 250 gr. caciocavallo grattugiato.
per la pastella:
- 300 gr. acqua
- 200 gr. farina e sale
Procedimento: in una pentola versate tutti gli ingredienti e lasciate cuocere, senza mescolare, per circa 40 minuti fino a che il riso non abbia assorbito tutta l’acqua. Dopo di che versare il riso in una teglia e lasciare raffreddare completamente.
Nel frattempo preparate il ragù. Tritate le verdure finemente (cipolla, carota e sedano) e fatele soffriggere nell’olio. Aggiungete la carne tritata e lasciate rosolare a fuoco medio. In seguito sfumare col vino bianco ed, alla fine, aggiungete le foglie d’alloro, i piselli ed il pomodoro. Se il caso aggiungete un po’ d’acqua tiepida, sale, pepe e fate cuocere per circa un’oretta e mezza. A fine cottura unite il formaggio grattugiato.
Assemblaggio: Inumiditevi per bene le mani, prendete un pugnetto di riso freddo e, con molta manualità e attenzione, formate delle palle della grandezza di un’arancia, schiacciatele al centro formando una conca in modo tale da inserire una bella cucchiaita di ragù (che deve risultare compatto e non liquido!). Richiudere con altro riso e ripetere lo stesso procedimento per tutti gli arancini. Non abbiate paura…man mano acquisterete dimestichezza e manualità!
Una volta preparate tutte le nostre pallette, le passiamo nella pastella composta da acqua, farina e sale e poi nel pangrattato.
Come ultima fase ma non meno importante è la frittura in olio bollente. I nostri arancini di riso saranno pronti quando avranno assunto un bel colore dorato.
A questo punto lasciate scolare l’olio in eccesso in carta assorbente e, come ci dice anche Camilleri:
“E alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano!”